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Albertino Cultura- Carlo Cattaneo
 

SULLA LEGGE COMUNALE E PROVINCIALE

Lettera prima
10 giugno 1864

Di Carlo Cattaneo, tratto da Scritti politici ed epistolario. vol III, pp. 74-97.

 

Liberata nel 1859 la Lombardia non aveva ancora eletto la prima sua deputazione al Parlamento, quando un potere dittatorio vi recò la legge per allora sancita in Piemonte sull'ordinamento dei comuni e delle provincie.

Né quivi, né altrove essa fece fortunata prova. Non appena poté dirsi in atto, e già gli autori suoi si accingevano ad emendarla. Ma tutte le riforme, sinora tentate da ministri e commissioni, non danno migliore speranza; discoprono sempre più la fallacia del fondamento. Il che non sarebbe, se i correttori, anziché spender fatica intorno alla legge nuova, la quale è già poi veramente un raddobbo d'altra più infelice fatta dal primo Parlamento nel 1848, avessero piuttosto preso le mosse da quella che nel 1849 rimase infaustamente abolita in Lombardia.

Portava questa la data del 1816; ma nelle sue parti più lodate risaliva alla metà dello scorso secolo. Anzi i magistrati che la promulgavano nel 1755, dissero di voler solamente rimettere in rigorosa osservanza gli ordini antichi. Può dunque avvenire anche delle leggi amministrative ciò che valse a tanto onore dei giureconsulti romani; ed è che le formule della giustizia e della provvidenza sopravvivano al secolo che le ha pensate e possano condurre ad altri giusti e provvidi pensamenti.

Agli ordini antichi dello Stato di Milano si aggiunse in quella legge quanto di meglio potevano suggerire gli ordini pure antichi, e ancor quasi inviolati, dei popoli toscani. Perocché, Pompeo Neri, già professore di di ritto pubblico nello studio di Písa, incaricato con Emanuele De Soria, Camillo Piombanti, Ferdinando Forti e Giuseppe Tarantola di proseguir l'opera del nuovo censo dello Stato di Milano, intrapresa già fin dal 1718, vi diede compimento con una legge comunale e provinciale. E sulla base d'un nuovo estimo dei beni, scevro d'ogni esenzíone e di ogni diseguaglianza, ricompose con mirabile semplicità e parsimonia tutta la pubblica amministrazione, già prima tanto intralciata da privilegii e arbitrii. E qui, alla prova di una secolare esperienza, si può ben ripetere il detto di Schiller che l'opera lodò l'artefice.

La nuova legge diede facoltà di deliberare delle cose comuni ad un convocato di tutti i possessori dei beni. Questi dovevano elegger fra loro una deputazione di tre; uno dei quali doveva esser preso fra i tre ch'entro i confini dei comune possedessero maggior estimo. A compimento poi d'una vera e sincera autorità comunale. si aggiungeva un deputato dei mercimonio e un altro eletto da tutti coloro che pagassero il testatíco. Codesti due rappresentanti del commercio e dei lavoro non avevano veramente voto diretto nelle spese dell'estimo prediale ma solamente su quella parte dei contributo mobiliare ch'era lasciata a sussidio dei comune. La legge porgeva loro un indiretto adito ad ingerirsi in tutto il complesso dei provvedimenti. Perocché il comune non poteva far uso d'alcuna particella dei testatico se non quando le altre fonti non bastassero alle spese; ultimo di tutti a pagare era chiamato il povero. Anzi la legge ammoniva il deputato del mercimonio a stare " avvertito perché le spese necessarie alla sussistenza della popolazione, come di medico, chirurgo, spedale, fontane, cisterne e altro, si facessero secondo la consuetudine, e non si distogliessero in altri usi meno necessarii agli abitanti, ovvero non si risparmiassero per comodo degli estimati ". Qui la legge dunque sanciva una parte di rappresentanza comunale fondata sulla capitazione: epperò sul suffragio universale!

Tali erano i diritti che la legge assentiva nel comune ad operai ed agricoltori un secolo fa!

La deputazione in tal modo eletta è già la sommità dell'edificio comunale. Perocché i deputati dell'estimo, coll'intervento di quelli del mobiliare, scelgono a sindaco " quella persona che fra gli abitanti del comune troveranno più idonea e più capace della pubblica fiducia. Essendo il sindaco dice la legge, il natural sostituto dei deputati che, per non poter essere sempre uniti e reperibili, hanno bisogno d'una persona che abbia l'espresso incarico d'invigilare agli affari dei comune, di ricevere ed eseguire gli ordini dei superiori e di far tutto quello che Potrebbero far essi se fossero adunati, sarà perciò la di lui elezione rimessa ai deputati medesimi... avvertendo però che, quantunque in qualche occasione debba egli intervenire nelle unioni dei predetti cinque deputati, non avrà alcun voto " ($$ 103, 113).

Il magistrato comunale era sotto l'ispezione di un cancelliere dei censo, il quale doveva intervenire a tutte le adunanze dei singoli comuni del suo distretto, ma solamente come ricordatore delle leggi, nonché come custode dell'archivio, e notaro " da rogarsi di tutti gli atti ". E doveva essere di nomina regia solamente fino a quando il nuovo censo fosse condotto " a esecuzione ". Dopo di che, diceva la legge, " Sua Maestà benignamente si contenta di rilasciare la nomina alle singole comuni ".

Era l'anno 1755!

Penso che debbono rimanere stupefatti tutti i credenti nella burocrazia.

1 pupilli avere il diritto d'eleggersi, a maggioranza di voti, il loro tutore! Avere il diritto di non rieleggerlo più, quando, a prova fatta, non fosse piaciuto!

In modo poco diverso, per quanto concedevano i diritti statutarii dei decurioni e le altre consuetudini municipali, vennero ordinate le amministrazioni delle città e quelle delle provincie. E un terzo ordine di rappresentanti, non costituito in forma di consiglio, era poi formato dagli oratori delle provincie e dai sindaci per le liti, che risiedevano presso al governo.

Ma il beneplacito dei governo non si stendeva nemmeno sul complesso generale di questo ordinarnento; perocché l'ispezione suprema apparteneva al Tribunale della Giunta dei Censimento. li comune era dunque al cospetto della legge una società di vicini, che provvedeva con certi contributi a certi servigii, e che, insieme agli altri comuni dei distretto, sceglieva persona idonea, la quale avesse cura dell'osservanza delle leggi e della regolarità delle aziende. Di tutte le quali cose doveva poi ragione a un tribunale.

A questo era riservato di giudicare se il cancelliere nominato dai comuni fosse idoneo. E quando non fosse notaio o dottore in leggi, poteva essere ingegnere collegiato o pubblico agrimensore, " purché avesse dato prova della sua idoneità in qualche altra pubblica incombenza ".

Tutto era adunque ordinato puramente alla provvidenza e alla giustizia, e ciò che sembra più strano alla libertà.

Ed era un diritto comunale di fonte prettamente italiana.

Or vediamo di qual fonte venga la legge di cui l'Italia deve ritentare l'impopolare e infelice esperimento.

Vent'anni dopo che la legge di Pompeo Neri era in prospero vigore, l'illustre Turgot, pubblicando nel 1775 quel suo Mémoire au roi sur les municipalités che parve in Francia una rivelazione, attribuiva con profondo senno la miseria del regno al volersi amministrata ogni cosa per mandato regio. Votre Majesté est obligée de tout décider par elle-méme ou par ses mandataires. Proponeva dunque che i comuni, le provincie, il complesso dei regno, si amministrassero con tre ordini di consigli elettivi.

Turgot non credeva dunque né al beneplacito regio né alla burocrazia. Ma la Francia gemeva ancora sotto il patto di Carlomagno, sotto la feudalità combinata dello Stato e della Chiesa; chi non era gentiluomo o prelato era rustico, toturier, vilain. E Turgot stesso, come pensatore, seguiva la dottrina fisiocratica, la quale ripeteva ogni ricchezza non dal lavoro, dal capitale, dal pensiero, ma unicamente dalla terra. Pertanto egli, fervido promotore di libertà eziandio nel commercio e nell'ìndustria, non ammise nel comune alcuna rappresentanza dei commercio e dell'industria; e anche per la terra ammise bensì tutti i proprietarii, ma diede loro un numero di voti commisurato all'ampiezza dei poderi. Era la voce della terra, non quella del comune.

La rivoluzione francese non seppe uscire dalla tradizione dei secoli e dalla fede nell'onnipotenza dei governanti. Ai mandatarii dei re successero i mandatarìi della nazione. Il furor della disciplina fece obliare la libertà. Il popolo ebbe la terra. Ma non ebbe il comune.

Eppure nel 1804 e nel 1805, quando la guerra ebbe arrecate a noi tutte quante come prezioso dono le nuove istituzioni francesi, troviamo che non solo nelle parti d'Italia annesse all'imperio, ma eziandio nel regno in fronte al quale si era serbato il nome d'Italia, tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o un podestà creato dal re. Anzi gli stessi consigli comunali, ovunque gli abitanti siano più di tremila, sono parimenti creatura dei re, e dove gli abitanti siano di meno, sono creatura dei prefetto. Questa è la nomina iniziale; negli anni successivi le nomine devono farsi sopra duple proposte dagli stessi consigli, ma farsi pur sempre dal prefetto o dal re. I comuni possono essere aggregati e disgregati a voglia dei ministro; il prefetto può far mutare le porte della città per minorar le spese di custodia; a sì luminoso scopo, la finanza anticipa i denari; e le città glieli rimborsano (Decr 23 giugno 1804). Per altro simile lampo di scienza, i comuni vicini alle mura vengono spietatamente incorporati alle città, con dissesto delle famiglie e dispargimento di migliaia di abitanti. Le municipalità dipendono dal prefetto o dal viceprefetto; eseguiscono gli ordini di questi; e in caso d'inobbedienza, possono esser sospese o fatte supplire.

L'unico diritto del nuovo comune italiano è il diritto d'obbedienza.

Il comune è l'ultima appendice e l'infimo strascico della prefettura e della viceprefettura. Il comune non è più il comune. Tutto il sistema è una finzione.

Nel 1814 i podestà e i consigli nominati dal re non mossero un dito a salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli Austriaci, facendo suonar le campane a festa. Tale è la solidità delle istituzioni burocratiche. Chi semina la servilità, raccoglie il tradimento.

Il comune nel regno d'Italia era così avvilito, che l'Austria, ripristinando nel 1816 l'antico nostro diritto comunale, poté gettarci in fronte quell'odioso rimprovero: " Convinti dei mali che risultano dall'attual sistema d'amministrazione comunale, ordiniamo: ... Le città e i comuni saranno ristabiliti... nei confini che avevano... secondo le viste e i principii dell'amministrazione introdotta pei comuni dello Stato di Milano coll'editto 30 dicembre 1755... Ogni comune sarà rappresentato da un consiglio o convocato generale degli estimati... L'amministrazione dei patrimonio sarà affidata ad una deputazione del consiglio o convocato... TI cancelliere o suo sostituto non ha alcun voto deliberativo e non deve punto immischiarsi nel determinare l'opinione dei votanti; ma, come assistente del governo, deve soltanto vegliare al buon ordine; far presenti, ove occorra, le leggi e i regolamenti; e distendere il protocollo delle sedute. Esso siede alla destra dei presidente. Presiede al convocato il maggiore d'età che sia deputato. Assistono pure al convocato il deputato alla tassa personale e l'agente comunale, senza però averci voce deliberativa ".

Fra le antiche istruzioni di Pompeo Neri rimase soppresso nel 1816 il deputato dei mercimonio. Forse si pensò che supplissero le camere di commercio e la proprietà prediale, cotanto diffusa nel ceto mercantile, in sessant'anni di riforme e rivoluzioni.

La legge dei 1816 venne estesa a tutto il Regno Lombardo-Veneto. Per i podestà e i consigli comunali delle città, fu conservato il falso principio delle nomine regie, fatte sulle proposte dei consigli, venuti essi medesimi da nomina regia. E oltre le congregazioni provinciali, le due regioni lombarda e veneta ebbero ciascuna una congregazione centrale: istituzione che prevenne fra Lombardi e Veneti ogni molesta ingerenza e ogni natural gelosia. Alle anime deboli che paventano le rappresentanze regionali, rammentiamo il fatto che dalla Congregazione centrale di Milano e dall'istituto lombardo, ch'era pure un corpo regionale, mossero nel 1848 le prime deliberazioni officiali che prelusero alla ricomposizione dell'Italia. Tutti i plebisciti mossero dalle autorità regionali. Ma la legge dei 1859 escluse ogni siffatta istituzione, per quanto necessaria alle riforme legislative, per quanto necessaria a riparare le intemperanze dei poteri nomadi e supplire le insufficienze dell'autorità centrale, involta sempre nelle tenebre del. l'ignoto.

La legge dei 1859 escluse dal voto comunale la maggioranza degli abitanti, perché ingiunse loro la condizione di pagare da cinque a venticinque franchi d'imposta diretta. Quella dei testatico era ingiusta; ma era diretta; e coll'abolizione di essa, la maggioranza degli operai rimase priva di voto, mentre, in uno od altro indiretto modo, paga assai più di prima.

E chi, pagando cinque franchi d'imposta diretta, ha oggi il voto perché oggi la popolazione del suo comune non oltrepassa tremila abitanti, non avrà più il voto dimani, perché l'arrivo d'una famiglia, o la nascita di qualche bambino, può elevare la popolazione oltre quella capricciosa cifra; o perché egli medesimo dovrà trasferirsi in altro comune di maggior popolazione; o perché il beneplacito ministeriale aggregherà, volenti o nolenti, due comuni in un solo. Questa incertezza perpetua dei voto necessita un nembo di registri e di affissíoni e revisioni e controversie che non hanno fine se non in Corte di Cassazione! Sessanta articoli della nuova legge versano intorno a questo immenso e inutile lavoro, quando bastava sostituire al principio della capitolazione quello dei domicilio. Chi paga affitto paga, diretta o indiretta, la sua parte d'imposta al comune.

Falsato il diritto comunale alla base, è falsato fino alla sommità. Il sindaco non è più l'agente scelto dei deputati per eseguire i loro ordini e far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati. Nei settemila e settecento comuni dei regno, il sindaco è capo dell'amministrazione ed uffiziale del governo; il sindaco presiede la giunta; distribuisce gli affari; può delegare le sue funzioni ad altri nelle borgate e frazioni; quando presiede il consiglio, investito di poter discrezionale, ha la facoltà di sospendere e di sciogliere l'adunanza; può ordinare che venga espulso dall'uditorio chiunque sia causa di disordine; ed anche ordinare l'arresto; in caso di scioglimento un delegato regio amministra a carico dei comune!

Tutto questo è indegno della nazione.

I comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà.

Nel 1755, la legge di Pompeo Neri diceva ai sudditi di casa d'Austria nello Stato di Milano, che il cancelliere dei censo, incaricato di conservar l'ordine nei convocati: si opporrà alle deliberazioni tumultuarie protestando della nullità e comminando l'indignazione dei superiori (art. 263).

Quale calma di misure! Qual decoroso e rispettoso linguaggio! t la voce d'un filosofo che parla a un popolo già libero e degno d'esser libero.

Si vuoi dunque esporre la nostra legge a siffatto paragone? In faccia all'Austría?

 

 

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