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Il commento
Devolution padana contro federalismo alla romana

di Ettore A. Albertoni

Nella settimana appena trascorsa si è iniziato a fare molta chiarezza sulla situazione politica a proposito di devoluzione e federalismo. Non c’è dubbio che il voto del Parlamento Lombardo del 15 settembre scorso abbia posto legittimamente e democraticamente con i piedi ben per terra l’avvio della fase di attuazione del federalismo così come era stato concordato nel programma 17 febbraio 2000 tra i candidati presidenti delle Regioni padane e le forze politiche - Lega Nord - Padania e Polo delle Libertà - che hanno vinto le elezioni Regionali del 16 aprile.
Per contro il dibattito iniziato il 19 settembre a Montecitorio sul “Disegno di Legge Costituzionale” predisposto nel febbraio 1999 dall’allora Ministro per le riforme costituzionali Giuliano Amato per la modificazione della seconda parte, Titolo V (Le Regioni, le Province, i Comuni) della Costituzione, sta dimostrando chiaramente che il “federalismo” proposto dal Governo centralista e autoritario dei comunisti e dei loro satelliti nel cosiddetto centrosinistra nulla ha a che vedere con l’avvio di una vera e seria stagione di riforme costituzionali, sociali ed economiche nel segno del vero federalismo.
Le forze non del “centro-destra” - come scrive con precisa intenzione la stampa di regime - bensì dell’alleanza tra il Polo delle Libertà e la Lega Nord-Padania hanno dimostrato sulla base di un consenso vastissimo e crescente che sono maturi i tempi per attuare - con la devoluzione dei poteri del Governo centrale alle Regioni - i dettati della Costituzione in materie previste dall’art. 117 della Costituzione. E ciò a Costituzione per ora invariata, con il previo consenso dei cittadini  che saranno consultati attraverso legittimi e corretti referendum da tenersi nella prossima primavera, nel quadro della unità nazionale (che è concetto assai diverso dalla concezione giacobina e comunista dello Stato e del suo ordinamento uno ed indivisibile, centralista e dirigista), nel rispetto e nella piena cooperazione tra tutte le Regioni che compongono la Repubblica.
Perché allora tante isteriche comparsate e tanti vergognosi voltafaccia da parte delle forze governative? Perché dopo avere fatto scrivere sull’organo del partito del governo di centrosinistra al momento della presentazione della proposta Amato: «Ecco la riforma federalista fisco e più poteri alle Regioni» (La Repubblica, 3 marzo 2000, p.7) oggi la stessa maggioranza parlamentare, che ha in Amato il suo Presidente del Consiglio in carica, rifiuta la sussidiarietà, la devolution, l’applicazione dell’art. 119 Costituzione in materia di autonomia finanziaria delle Regioni? Perché con questo inutile dibattito si è voluto offendere i cittadini e si è anche voluto umiliare ed offendere la volontà democratica e riformatrice della nuova maggioranza che regge 43 milioni di cittadini su 56 milioni dopo le elezioni regionali dell’aprile scorso?
La vera ragione è che il Blocco degli autonomisti, dei federalisti, dei produttori e dei lavoratori che si riconosce nell’alleanza tra il Polo delle Libertà e la Lega Nord-Padania sta colpendo la vera struttura di potere che da sempre domina il Paese. Il Governo dei comunisti e dei suoi alleati fa propaganda, disinformazione, polemica e peggio perché ha paura del voto popolare e, più in generale, di ogni seria scelta riformatrice. Non va mai dimenticato che dopo la grande crisi culminata nella Seconda Guerra mondiale e nella sconfitta dell’Italia, nella scomparsa del regime fascista e della monarchia sabauda si aprì dal 1946 una fase ben diversa di esperienza politica. Dopo l’integrazione monarchica attuata attraverso l’unificazione risorgimentale e quella autoritaria, nazionalista e statalista, del fascismo si ebbe quella democratica e repubblicana. Essa si costruì sui principi e gli ordinamenti previsti dalla nuova Costituzione formale che, dalla sua entrata in vigore (1948) ad oggi, è stata per larghissima parte inattuata e, spesso, addirittura tradita. Questa “integrazione repubblicana” assunse subito e di fatto come sua bussola una sorta di filosofia perenne della continuità storica dello Stato italiano. Invece di rappresentare discontinuità e rottura con un passato politico in cui c’erano sul piano delle violazioni delle libertà e dei diritti non pochi motivi di disonorevole vergogna la nuova legalità repubblicana non seppe fare di meglio che abbarbicarsi a quanto di meno vecchio e di più funzionale era stato radicato nell’organizzazione dello Stato, ossia all’eredità del fascismo. Con il risultato che essa si  sviluppò fragile e chiusa, conservando gelosamente ed utilizzando quotidianamente gli apparati burocratici arroganti ed inefficienti, le leggi antiliberali in materia di diritti civili e le leggi dirigistiche in economia e relazioni sociali. La Repubblica tradì nella sua concreta vita politica la spinta di libertà che era nel Paese e scelse - in piena consociazione tra maggioranze anticomuniste ed opposizioni comuniste - una concordata filosofia pubblica basata sulla centralizzazione autoritaria, omologante e corporativa che nella continuità con lo Stato ereditato dal fascismo aveva il suo punto di forza sia per governare, sia per spartire con l’opposizione i vantaggi del potere.
In questo modo e con questa totale assenza di coraggio civile la Repubblica concentrò in sé la somma di tutte le eterogenee e, troppo spesso, fallite esperienze del passato politico sia monarchico che fascista. Una piena e vitale libertà nella politica ed una vera “integrazione comunitaria”, libera, consensuale e condivisa nel quadro di un moderno, giusto e democratico Stato di diritto, lo sviluppo del principio autonomistico solennemente affermato all’art. 5 Costituzione, avrebbero dovuto essere i difficili ma non certo impossibili obiettivi che la Repubblica - terza versione dello Stato italiano in meno di un secolo di vita unitaria - avrebbe dovuto affrontare e risolvere. Ciò purtroppo non è avvenuto e la situazione di profondissima crisi in cui è immersa la politica a noi contemporanea registra un terzo, inequivocabile fallimento. Va in particolare sottolineato che il nuovo regime politico a base partitica dichiarò in ogni modo di volere rifiutare i motivi ideologici del patriottismo ottocentesco e del nazionalismo fascista. Si trattava di una posizione comprensibile in quanto rispecchiava le convinzioni ideologiche e di rifiuto dell’eredità risorgimentale e post-risorgimentale dei partiti largamente maggioritari, la Dc e il Pci, con un consenso complessivo di oltre il 70% dei voti espressi da un elettorato che si recava allora alle urne in misura superiore al 90%. Tuttavia questa politica che sostituiva all’identità “nazionale” quella “ideologica” dal punto di vista dell’organizzazione dello Stato democratico e della sua legittimazione seppellì unicamente le forme simboliche e marcatamente retoriche di quello che ancora era rimasto (ed era poco) dell’identità nazionale italiana nella versione ottocentesca e, poi, fascista. Ma nei fatti istituzionalmente rilevanti la democrazia repubblicana a base partitica restò anch’essa più fedele che mai al dogma ed alla prassi della continuità dello Stato. In questo modo essa ha accettato senza alcun beneficio d’inventario tutte le eredità cumulate dal 1861 ed ha mancato il suo obiettivo principale di rinnovamento e riforma. L’attuale governo dei comunisti e dei loro alleati e satelliti ha confermato questa vecchia e frustra politica di potere che dura da mezzo secolo. Di fronte alla iniziativa dei federalisti e dei democratici che hanno iniziato la rivoluzione dal basso rappresentata dalla “devolution” anche il “federalismo alla Amato” è stato buttato a mare.
Finalmente! I federalisti stiano con i federalisti ed i centralisti con i comunisti ed i loro alleati. Su chi dovrà governare deciderà - come è giusto in democrazia - il popolo.

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