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Dal 1983 si sono succedute tre Commissioni bicamerali,
tutte ispirate alla vecchia politica centralista e tutte fallite
Riforme costituzionali: un lungo sterile cammino

di Ettore A. Albertoni

In Italia dal 1983 sino a oggi si sono succedute tre diverse Commissioni parlamentari miste tra deputati e senatori che hanno cercato di delineare le possibili linee di una riforma dell’ordinamento costituzionale, senza conseguire però alcun risultato e senza raggiungere alcun accordo su come procedere per il futuro. Si è navigato alla cieca e ogni volta si è cercato di ricominciare di nuovo. È, infatti, significativo sottolineare che dopo la primissima e timida elaborazione svolta dalla Bicamerale (composta da venti deputati e da venti senatori) presieduta dal liberale Aldo Bozzi (1983-85) si è passati a una seconda Commissione (1992-93) presieduta dapprima da un autorevolissimo democratico-cristiano come Ciriaco De Mita, già segretario della Dc e presidente del Consiglio dei ministri, e, poi da una rilevante personalità comunista, Nilde Iotti, già componente dell’Assemblea costituente (1946-1947) e presidente della Camera dei deputati. La terza Commissione bicamerale (trentacinque deputati e altrettanti senatori) è stata istituita con la legge costituzionale n. 1 del 1997 ed è stata presieduta dall’ex comunista e post-comunista Massimo D’Alema, all’epoca segretario del maggiore partito della maggioranza di centro-sinistra (Pds) che dal 1996 governa il Paese.
Anche i lavori di questa Commissione non hanno portato ad alcun risultato concreto e quindi la riforma costituzionale non ha mai preso forma e possibilità di attuazione. Non è un paradosso dire, grosso modo e fatta eccezione per i socialisti eliminati dalla scena politica insieme con il loro leader Craxi, che le forze politiche governative sono le stesse da tre lustri a questa parte e che il loro disegno riformatore in campo istituzionale e costituzionale è sempre stato politicamente contraddittorio, culturalmente inconsistente ed operativamente nullo.
Giudizio severo ma equo perché il fallimento delle tre Commissioni bicamerali non può portare ad altra o diversa conclusione. Passando ora, dentro questo contesto immobilista e conservatore, al piano dei fatti e a una conoscenza diretta e serena della situazione italiana in materia di riforme, è necessario prendere atto che a livello parlamentare nell’arco di 17 anni tutte le maggiori forze politiche sia delle vecchie maggioranze parlamentari (socialisti, democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani) sia delle nuove maggioranze consociative tra comunisti, sinistre democratico-cristiane ed eterogenei gruppi misti non sono state in grado di delineare un progetto di riforma della Costituzione e dell’ordinamento di uno Stato come quello italiano che da sempre attraversa non soltanto una profondissima crisi di identità e di ruolo ma che da tempo non riesce addirittura più a rispondere alle stesse esigenze primarie della buona e corretta amministrazione. Particolarmente significativo resta, almeno a mio avviso, soprattutto il fallimento di Massimo D’Alema in quanto rappresentante autorevolissimo di una nuova maggioranza parlamentare - nota come “Ulivo” - che vinse le elezioni nel 1996 chiedendo perentoriamente il voto per riformare profondamente la Repubblica e le sue istituzioni. Ciò non è avvenuto né con la leadership di Romano Prodi, primo ministro dal 1996 al 1998, né con i due governi D’Alema dal 1998 al 2000.
Allo stato della situazione politica appare del tutto impensabile che il nuovo gabinetto presieduto da Giuliano Amato, che non è neppure parlamentare e che ha rabberciato proprio in questi giorni una risicata maggioranza solo parlamentare dopo la clamorosa sconfitta del centrosinistra nelle elezioni regionali in tutto il Nord, popoloso e produttivo ed in importantissime regioni del Centro e del Sud come il Lazio e la Puglia, possa avviare qualsiasi attività riformatrice.
Non mi è qui possibile fornire ulteriori dettagli sul sistema politico italiano e sulle sue anomalie che nella ormai ultra cinquantennale vita della Repubblica italiana hanno impedito la modernizzazione e la democratizzazione dello Stato. Con una maggioranza parlamentare di centrosinistra formata da 17 gruppi parlamentari e da altrettanti (se non più) sottogruppi, con un “gruppo misto” alla Camera dei deputati formato per lo più da transfughi dai partiti che li avevano eletti e che rappresenta circa un terzo dell’intera assemblea e con un numero terrificante di leggi in vigore (si dice circa 225-250 mila rispetto alle settemila francesi e alle 5-6 mila tedesche) la riforma costituzionale “dall’alto” è risultata impossibile. È tuttavia legittimo chiedersi se le mancate riforme non abbiano incontrato altri ostacoli anche se quelli che derivano evidentemente da un simile sistema politico-legislativo e costituzionale non sono davvero poca cosa. La risposta coinvolge in primo luogo lo storico e segnatamente lo storico delle idee politiche e delle istituzioni giacché l’esegesi puramente giuridica e costituzionalistica non appare sufficiente. Do molto volentieri atto al collega Michel Ganzin di avermi consentito, nella sua qualità di presidente della “Association Française des Historiens des Idées Politiques”, di offrire da tempo ai colleghi di questa associazione l’opportunità di presentare e discutere i “nodi” principali ed irrisolti della politica e dell’organizzazione dello Stato in Italia. Mi richiamo in particolare alla relazione che ho svolto al “Colloque” di Nizza dedicato al tema “Europe et Etat” (cfr. “L’Etat régional en Italie et sa crise actuelle”, 1992), nonché ai contributi che insieme con i miei collaboratori abbiamo presentato al pubblico francese degli studiosi tracciando un inventario storico e critico delle esperienze regionali italiane più autonomistiche nelle regioni a statuto speciale come Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna (cfr. la ricerca compresa in “L’Europe entre deux tempéraments politiques: idéal d’unité et particularismes régionaux”, 1994). Gli studiosi francesi che hanno consultato e letto questi e altri contributi miei e dei miei collaboratori contenuti nelle pubblicazione dell’Afhip - edite dalle Presses Universitaires di Aix-Marseille - sanno che il “nodo” della riforma costituzionale in Italia è rappresentato dalla dialettica che contrappone la centralizzazione autoritaria, partitocratica e burocratica dell’apparato dello Stato all’autonomia legislativa, finanziaria e amministrativa, che è invece prevista dalla Costituzione (artt. 5, 114-133) ma che non è mai stata seriamente e concretamente attuata. Questa essenziale “riforma dal basso” - dalla base territoriale, culturale, sociale e produttiva - è stata il grande contributo che è venuto dalla forza più innovatrice e riformatrice in senso autonomistico, federalistico, liberalizzatore e democratico che dalla metà degli anni Ottanta opera nella complessa e difficile situazione politica italiana: la Lega Nord-Padania. Si tratta di una forza di opposizione mai compromessa nel regime consociativo che ha di fatto vanificato, come abbiamo visto, ogni prospettiva di riforma. Questo è il fatto nuovo, giacché le recentissime elezioni regionali hanno dato vita a un’alleanza strategica tra tutte le forze di opposizione democratica e autonomistica (di un autonomismo che guarda concretamente al federalismo). La maggioranza degli elettori si è espressa per la Lega Nord, Forza Italia ed altri movimenti riformatori di diverso radicamento territoriale riuniti sotto la denominazione “Polo delle Libertà”.
Sussidiarietà - secondo i principi accettati e condivisi dalla cultura giuridica delle autonomie, della responsabilità e della partecipazione popolare - e devoluzione dei poteri e delle competenze primarie, che la Costituzione assegna in modo non revocabile alle regioni e agli altri enti locali di autonomia territoriale, sono i principi politici che impegnano nei prossimi cinque anni i presidenti eletti dalla alleanza programmatica tra la Lega Nord-Padania e il Polo delle Libertà in Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria. Questa impostazione è già condivisa dalla maggioranza che governa il Friuli-Venezia Giulia e dai presidenti del Polo delle Libertà che iniziano a governare le regioni centro-meridionali che ho appena ricordato. Si può davvero constatare che la riforma costituzionale sta iniziando a opera del potere costituente per eccellenza, che è quello del popolo sovrano.

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