Non vi è dubbio che nel nostro Paese il termine Federalismo, per
molti partiti, evoca e propone suggestioni magiche, una linea di demarcazione tra
modernità e "antico". E' come se, cadute le ideologie, nel Federalismo si
ravvisi il segno particolare da assumere a panacea di tutti i problemi, come fosse un fine
da raggiungere piuttosto che uno strumento funzionale ad obiettivi definiti e largamente
condivisi.
La legittima insoddisfazione nei confronti di uno Stato accentratore ed inefficiente, che
si contrappone alla debolezza delle autonomie regionali, costituisce il terreno di coltura
per ogni tipo di rivendicazione autonomistica frammista a minacce separatiste, senza una
specificazione che riporti la questione ad un dibattito politico in grado di coinvolgere i
cittadini ed i soggetti sociali che concorrono alla vita democratica del Paese.
Il dibattito infatti è rimasto nell'ambito dei partiti. Gli stessi grandi soggetti
sociali quali i Sindacati, la Confindustria, le organizzazioni dei lavoratori autonomi non
sembrano coinvolti in modo rilevante e continuano ad operare in una dimensione che ha a
riferimento, da una parte il posto di lavoro e dall'altra l'Istituzione Centrale, il
Governo Nazionale, che fissa le politiche generali. Il loro sistema di "relazioni
industriali" non è rivolto alla dimensione Regionale con la quale può essere semmai
concertato l'intervento dello Stato sulle questioni dell'occupazione. Il protocollo
d'intesa del 23 luglio 94 è a tale proposito l'esempio più rilevante, esso rappresenta
la "costituzione materiale" delle relazioni sociali e ricolloca al
"centro" la contrattazione collettiva in tema di sviluppo economico ed
occupazionale e di difesa del salario dei lavoratori.
Le organizzazioni degli interessi, siano essi sindacali o d'affari, sono comunque
interessate agli esiti del dibattito sugli assetti istituzionali per quanto riguarda il
rapporto centro-periferia perchè le loro stesse strutture organizzative ne risulteranno
condizionate.
L'interesse maggiore a favore del rafforzamento dei governi locali è delle imprese di
piccole e medie dimensioni meglio influenzate da una buona amministrazione locale dotata
di ampi poteri di intervento anche in materia di costo del lavoro. Si fa strada, in molti
soggetti economici, la possibilità di reintrodurre le "gabbie salariali", cioè
una diversificazione dei salari sui vari territori per cui il lavoratore, a parità di
prestazione, riceverebbe un compenso inferiore e quindi aumenterebbe il profitto
dell'impresa e la sua competitività.
E' evidente che quanti pensano di risolvere così i problemi dell'occupazione e dello
sviluppo al sud non tengono conto che, per i settori produttivi che potrebbe coinvolgere,
in massima parte a bassa qualificazione, ciò andrebbe prima di tutto ad incidere su
salari già al limite del sostentamento mentre i consumi medi sono ormai pressoché
uniformi su tutto il territorio nazionale. Favorita da una politica di questo tipo sarebbe
la piccola e media impresa radicata sul territorio.
La grande impresa invece è consapevole che la tenuta dei mercati non può prescindere
dall'equilibrio dei redditi e del potere d'acquisto tra le varie regioni pertanto non
sarebbe fautrice di soluzioni federali che non prevedano sistemi di compensazione tra
regioni. Il mondo dell'impresa dunque potrebbe convergere a favore di un neoregionalismo o
federalismo debole, che comporti modifiche anche costituzionali limitate e graduali, dove
poter situare il federalismo fiscale e politiche del lavoro tendenti a differenziare il
salario da territorio a territorio e nello stesso tempo capace di garantire la tenuta del
mercato interno. Obiettivi, largamente condivisi, del riassetto dovrebbero essere, la
semplificazione dei livelli di governo, il miglioramento delle prestazioni erogate
dall'amministrazione pubblica, lo sviluppo di forme di autogoverno decentrato. Una ipotesi
federale quindi che implica necessariamente una diversificazione territoriale dei livelli
impositivi e delle prestazioni erogate dal sistema welfare, nei loro aspetti qualitativi e
quantitativi, entro certi limiti, definiti dalla legislazione nazionale, ma nelle ipotesi
massimaliste intesi molto ampi, vi potranno essere sistemi regionali caratterizzati da
forte imposizione, grande erogazione di prestazioni, e viceversa.
Si deciderà a livello regionale quali prestazioni privilegiare. L'autogoverno, per
definizione, produce differenziazione e questo potrebbe essere positivo purchè non
riguardi prestazioni essenziali, ad esempio la sanità perchè potrebbe verificarsi il
rischio che i sistemi più efficienti attraggano risorse pregiate da quelli meno
efficienti o economicamente meno dotati, perchè chi volesse fruire di prestazioni
pubbliche in altri sistemi, dovrebbe pagarle. Una obiezione è che spesso le Regioni non
si sono mostrate molto più efficienti del vecchio centralismo statale sia dal punto di
vista amministrativo che per la capacità programmatoria, non vi è dubbio che vi sia la
necessità che in sede locale, si formino un ceto politico e burocratico adeguati a
prescindere dal sistema organizzativo dato. A tale proposito va ricordato che, nella
stessa Europa, esistono stati federali che funzionano peggio di quelli unitari e
viceversa: agli effetti della efficienza e della qualità delle prestazioni, il fattore
decisivo è costituito di fatto dal grado di efficienza della pubblica amministrazione è
evidente allora come sia indispensabile prima di tutto stabilire quali obiettivi "
largamente condivisibili " si vuole raggiungere coinvolgendo nel dibattito tutti gli
interessi, siano essi personali o di gruppi sociali per evitare soluzioni che potrebbero
risultare dirompenti sotto vari aspetti compresa la disgregazione del Paese. Poichè molte
regioni italiane non presentano un gettito fiscale in grado di garantire le prestazioni
attualmente previste, una ipotesi rigorosamente federale dovrebbe mettere in conto
standards di prestazioni pubbliche fortemente differenziate tra regioni ricche e regioni
povere del Paese a partire da quelle sanitarie, per non parlare dell'assistenza sociale.
Quanto ciò sia compatibile con il mantenimento dell'unità nazionale è fortemente
problematico.
Se le differenze territoriali comportano anche forti diseguaglianze nel reddito prodotto,
stabilire una connessione tra differenze socioeconomiche e prestazioni potrebbe avere
effetti molto gravi. In ogni caso non si può prescindere da una ridefinizione dei
rapporti tra il nord e il sud del Paese in una qualsiasi prospettiva di riordino dei
poteri locali. Vi è poi la questione del debito pubblico che le ipotetiche regioni
federate dovrebbero addossarsi e che di fatto porterebbe le nuove autonomie locali a
gestire quote di bilancio ridottissime non potendo pensare di aumentare la pressione
fiscale già oggi insostenibile.
Va comunque ricordato ai "massimalisti del federalismo" che un'immagine troppo
semplificata dell'assetto istituzionale trascura altre corpose realtà, spesso più
sentite dalla popolazione come le Provincie e i Comuni.
La conclusione che si può trarre è che ogni progetto riformatore deve confrontarsi con
la concreta storia politica d istituzionale del Paese e con i suoi differenziali di
reddito su base territoriale, in un'ottica che non privilegi gli interessi forti ma che
sia uno strumento in grado di conseguire soluzioni che rendano efficienti anche le Regioni
ora più in difficoltà superando gli egoismi di quanti, in modo poco lungimirante,
sperano di mantenere le migliori condizioni raggiunte chiudendosi nella loro
"opulenza" senza riattivare un SISTEMA-PAESE efficiente, unico in grado di
mantenerci nella competizione economica e di civiltà internazionale con un ruolo
rappresentativo e quindi positivo.
Gabriella Barbo
Da lettere triestine
http://www.spin.it/lettere-triestine/arrangi.html