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Una repubblica italiana. Il Cantone Ticino, 
opera prima del filosofo
Giuseppe Rensi, a scuola di federalismo elvetico

di Giulia Caminada Lattuada

Sono passati alcuni anni da quando un amico e maestro di libertà mi parlò di Giuseppe Rensi, del “ticinese” Giuseppe Rensi, avvocato, filosofo e giornalista, costretto alla fine dell’Ottocento a riparare in Svizzera, nel Cantone Ticino, per sfuggire alla condanna del Tribunale Militare per aver preso parte ai moti operai milanesi del 1898, stroncati dall’esercito con la strage del generale sabaudo Bava Beccaris. Avversato alla pari dai due doganieri della filosofia nazionale, Croce e Gentile, escluso dalla cattedra universitaria già dal 1927, arrestato nel Trenta con la moglie, Lauretta Perucchi asconese, per cospirazione antifascista, sempre tenuto in disparte, da vigilato speciale, fino alla morte, il 14 febbraio 1941; e anche il funerale venne disperso, e qualche discepolo schedato. Ma il Ticino fu per Rensi la scoperta del modello ticinese di “democrazia diretta” e l’esperienza della vita pubblica del Ticino e della Svizzera in seguito all’ottenimento della cittadinanza e all’accesso anche ad alte cariche politiche: fu eletto deputato al Consiglio Maggiore e divenne segretario del Consiglio di Stato. Rensi è l’autore, fra l’altro, di numerosi saggi che vedono inizio nella sua opera prima, Una Repubblica Italiana. Il Cantone Ticino. La scoperta della sua opera prima - rintracciata in una libreria di Lugano, recentemente riedita da Armando Dadò editore – ci porta a riflettere su alcune tematiche che il vivere sociale e civile della cosiddetta Italia si trascina da lungo tempo, sicuramente dai tempi che vedono l’impegno civile e politico di Rensi, che equivale a dire, più o meno, dai tempi dell’unificazione forzata della penisola sotto Roma. Tematiche tanto attuali oggi in un contesto sociale, culturale, civile e politico dove la forte, dignitosa e quanto mai “moderna” voce del Rensi si staglia mai inopportuna. E per dirla con le stesse parole di Rensi, «per disperdere il pregiudizio che attribuisce alcunché di fatale, di destinato, d’immutabile ad un assetto politico-sociale sotto cui siamo avvezzi a vivere fin dall’infanzia non vi è miglior mezzo che mostrare l’esempio di regimi politici diversi da quello in cui si è abituati a vivere. L’esempio di regimi politici i quali sono l’attuazione di ciò che dove si vive, è proclamato d’attuazione impossibile». Ed ecco l’esempio del Canton Ticino, a due passi dall’Italia. «In altri Paesi – a Ginevra, a Zurigo, a Parigi, a Bruxelles, a Londra – si potranno osservare degli esempi di democrazia più sviluppata, più larga, più ardita, più ricca. Ma tali esempi ci si appalesano anche come il portato di popoli profondamente diversi dal nostro. Noi sentiamo in quei Paesi, una lingua diversa, osserviamo costumi diversi, vediamo un paesaggio e perfino un’architettura diversa; è naturale quindi che non ci meravigli il constatarvi istituzioni politiche profondamente diverse dalle nostre, aventi per base inconcussa una libertà non revocabile in discussione, una democrazia in cammino continuo verso una maggiore larghezza; è naturale che non ci sorga spontaneo il pensiero: “se ciò è giusto, è buono, è possibile qui, perché non dovrà essere giusto, buono, possibile anche in Italia?”. Precisamente l’opposto, invece, avviene per chi osservi l’esempio di democrazia presentato dal Cantone Ticino». Quasi a ricordare che l’identità è un insieme di valori condivisi dalle stesse comunità e ogni società è prima di tutto un nucleo di valori fondanti, un’idea condivisa e in secondo luogo un sistema collettivo organizzato e istituzionalizzato. Il che equivale però tristemente a constatare che nonostante sia la stessa terra e la stessa identità culturale, proprio lì lungo il confine tra il Ticino e la cosiddetta Italia, la diversità delle istituzioni compromette la salvaguardia, la crescita e il benessere dello stesso popolo. E, prosegue Rensi in maniera tanto semplice, quasi ovvia e paradossale, «Voi partite da Cannobbio, col battello a vapore, ed arrivate a Brissago, o meglio partite a piedi da Pino e arrivate a Caviano; o meglio ancora vi recate da Pontetresa a… Pontetresa, dalla parte italiana del paese a quella svizzera. Avete impiegato nel primo caso venti minuti; nel secondo dieci; nel terzo due. Nulla intorno a voi è cambiato. Voi vedete lo stesso orizzonte, lo stesso lago, le stesse montagne; voi udite non solo la stessa lingua, ma l’identica inflessione di dialetto; voi siete in mezzo agli stessi uomini e ai medesimi costumi. Eppure voi siete passati da un popolo il quale (come ci vanno ricantando i nostri uomini politici seri e perbene) non è maturo per la libertà e la democrazia, ad uno il quale invece è maturo per una Repubblica a base, non pure di democrazia rappresentativa, ma di democrazia diretta. In due minuti voi siete passati dalla verità apodittica, insegnata ai ragazzi delle scuole elementari, che la monarchia temperata è la miglior forma di governo, all’altra verità apodittica, insegnata ugualmente nelle scuole primarie, che “la miglior forma di governo, per un popolo libero e illuminato, è la repubblica federativa e democratica”». E questa è l’assurdità in cui vengano a trovarsi l’Italia e la Svizzera proprio lì lungo i confini. Due Stati che pur confinanti sono e restano invece tanto diversi, talvolta contrastanti ed opposti. Ma qualcuno ha anche detto che una terra sono i suoi uomini e le sue istituzioni. «E gli uomini che nascono di qua», dice Rensi, «nascono con l’innata attitudine ad esercitare diritti di assoluta e sconfinata sovranità politica, a cui nessuna cosa e nessuna persona sta sopra, attitudine che a pochi minuti più in là gli uomini non portano più, nascendo, nell’animo loro. Quest’antitesi, così piena, tra l’identità di razza, di lingua, di costumi, e la dissonanza di istituzioni politiche fa sì che, come dicevamo, le osservazioni sullo sviluppo della democrazia fatte nel Canton Ticino siano, per gl’italiani, più suggestive di quelle fatte in qualsiasi altro Paese».

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